mercoledì 26 agosto 2009

Magnitudo Solitudinis

Una capitale europea. Qualche giorno libero. Solo.
Immergersi nell’alternanza architettoniche di stili e periodi.
Fregi, stazioni, insegne, lampioni, ristoranti, musei, fontane, lastricati, restauri, giardini, negozi, gallerie, ponti, piazze, bar, statue, ristrutturazioni, scalinate, bus, parchi, affrontati così come si presentano.
La curiosità unico criterio. Senza orari o costrizioni che non siano dati dalle gambe o dallo stomaco.
Volti che si incrociano, profili che attendono il verde.
Mi piacerebbe fotografare migliaia di volti in ogni città, ma temo sempre di essere invadente. Ci vorrebbe uno zoom da mutuo…
Eppure sono infinite le espressioni dei passeggeri di una metropolitana : quante varianti della melanconia negli impiegati sugli strapuntini, mentre sembra sempre identica l’aria sperduta dei turisti appena arrivati, siano essi pragmatici anglosassoni un po’ goffi alla ricerca di un po’ di bohème, attrezzatissimi teutonici essenziali d’abito e traboccanti guide e mappe, rumorose comitive spagnole un po’ sbracate, coppie di sposi italiani dai set di valigie uguali per sentirsi un viaggio solo o per non dover litigare anche su quelle in caso vada male.
E non si può non vivere, una volta nella vita, il mescolarsi serale di coloro che rientrano e di coloro che escono, la coabitazione di mise da sera con stanchi portatori di zaini e valigette. A ogni stazione si rinnova il mistero di volti riflessi in finestrini che danno sul buio.
La concentrazione, lo stupore, il rapimento dei visitatori di un museo. La noia dei bambini, e il loro illuminarsi quando finalmente trovano qualcosa che li incuriosisce o, più semplicemente, con cui giocare. Adulti e bambini, tutti con la stessa voglia di toccare con mano. Tutti lì, a reprimere a stento la voglia di tuffarcisi dentro e non tornare più, dispersi in tavolozze immortali.
L’ansia, la rilassatezza, la fretta, l’allegria, delle persone a passeggio nelle strade più note o più affollate. Lo spettacolo di quelli che si aspettano nel punto stabilito, la faccia del “dove si sarà cacciato?”, ora simile ad un cane da punta, ora preoccupata, talvolta distratta, sempre nervosa. I maschi ai primi appuntamenti li riconosci non per l’età, un dettaglio indifferente, ma perchè sono vestiti come nei manifesti, sono lì da prima di te, ti guardano male ogni tanto e, quando passata un’interminabile frazione d’ora di prammatico ritardo lei arriva, tirano fuori le sigarette dopo averla baciata. E se ne vanno abbracciandola e guardandoti di sfuggita con aria sorniona, come se lei fosse il premio. Il premio della tacita gara per non aver acceso nessuna delle tre o quattro che invece tu gli hai fumato in faccia. Il premio per l’impresa dell’eroe, per il sacrificio, per la volontà. O forse cercano un pizzico di invidia sul tuo volto di uomo solo, mentre “guarda che pezzo di donna mi porto appresso io”. Chissà se qualche volta hanno pensato, “Ehi amico, spero che arrivi anche la tua”. No. Al massimo di solidarietà avranno pensato “Spero tu abbia un altro pacchetto”. I più ironici “Se domani leggo di un cadavere per intossicazione, so chi è”. I più caustici “Spero che arrivi la tua femmina, sennò sarai un altro che peserà sulla sanità pubblica”.
Le donne invece, se aspettano, aspettano solo le amiche. E se fumano, fumano e basta. Al massimo fingono di non trovare l’accendino per vedere se qualcuno se ne accorge e con ciò confermare a sé stesse che c’è sempre qualcuno che le guarda, anche se gli anni non son più venticinque. O proprio per quello.
Le sagome in controluce, sullo sfondo del riverbero di uno specchio d’acqua, ricordano attimi di pittura futurista, mentre le pose e le espressioni delle persone nei parchi vagheggiano impressionismi di altre latitudini. Il manierismo delle donne fasciate in coloratissime tuniche lunghe e leggere mi lascia un po’ interdetto e le scollature generose mi rammentano lontane stagioni neoclassiche. Gli abiti da ufficio, neri ed aderenti, dagli orli svolazzanti mi gettano nell’astrattismo dadaista e quelli di misto seta stampata a fiorellini evocano paraventi orientali e broccati alle pareti, inventando nella mia mente interni di bordelli fin-du-siecle alla Toulouse-Lautrec. Magliette colorate su minigonne ed hot pants suggeriscono serie di seni solarizzati degne di Warhol, mentre dall’altra parte della strada un jeans attillatissimo mi fa balenare nella mente il gesto rapidissimo e feroce di un Fontana spaziale.
Cercare di riconoscere i codici dietro gli abiti e i gesti. Curiosare tra gli accessori : quelli portati con cura, poche volte, e quelli ormai logori, agendine stropicciate, braccialetti incrinati, portafogli grinzosi, più o meno tutti all’origine di un gesto ripetuto a intervalli regolari, come una firma personale allo scorrere del tempo, alla noia del tragitto, al ritmo nelle cuffie.
Già… I lettori MP3… I pollici sembrano sirene ululanti di un’ambulanza del Pronto Soccorso Emozionale, nel loro spasmodico roteare e cliccare, alla ricerca del titolo o dell’autore adatto all’umore, al ricordo, al sogno, all’atmosfera, al sapore del momento.
Cosa darei per sapere cosa ascoltano, cosa pensano, cosa cercano, quei volti bellissimi nella loro sfavillante stanchezza, quegli occhi dalle sfumature verdi, azzurre, castane, grigie. Truccati, spenti, socchiusi… Occhi indifferenti, persi chissà dove, sognanti, freddi, velati di nostalgia… Occhi cattivi… Occhi supplicanti… Occhi innamorati, immobili nella contemplazione del volto che li accompagna. Occhi infantilmente spalancati di fronte a quel via vai di ordinaria bizzarria. Occhi distratti, occhi in fuga, occhi indispettiti, occhi divertiti dagli sms, occhi di figli in carrozzina e di orgogliosi genitori stremati. Occhi seminascosti da capelli mossi dal vento…
Centinaia di migliaia di occhi che guardano e forse non vedono, centinaia di migliaia di orecchie che ascoltano e forse non sentono la vita che palpita nelle mattonelle dissestate e traballanti fatte apposta per far inciampare i predestinati ad incontrarsi, nei bassorilievi incrostati ed erosi dal vento e dalla pioggia, anneriti dal traffico, umiliati dai piccioni. Il ritmo della città, di sera, è lo scorrere del fiume delle luci rosse e bianche dei serpenti di auto, la sua vis comica sta negli sguardi dei fotografi che guardano gli schermi LCD delle digitali tascabili. E allora, come non comprendere i vampiri di fronte a bellissimi colli scoperti dalle capigliature raccolte sulla nuca con una cannuccia di bambù?
Perdonatemi, non c’è nulla di più bello e sconvolgente di una donna che ti sorride. Questa città mi ha sorriso, ed io non capisco più niente.

lunedì 6 luglio 2009

The coming insurrection




Non stupisce dunque che sorgano movimenti di pensiero che, stretti tra il
fallimento del sistema liberista sancito dalla crisi economica mondiale, il
rifiuto ideologico del liberalismo imperante nel prendersi carico del futuro, le
evidenze del degrado ambientale planetario, elaborino la ribellione violenta
come unico mezzo per sfuggire a questa morsa stritolante. Non vi è, infatti, un
modo "liberale" per sottrarvisi.



Cerchiamo però di non fare troppo casino, dato che ce ne è già tanto : primo, "liberismo" e "liberalismo" non sono sinonimi.
Secondo : il "liberismo" prevede che lo Stato si faccia carico di quegli aspetti dei quali i singoli non possono farsi carico.
Terzo, la "crisi" è un fatto naturale per qualsiasi sistema : piantiamola di sognare un sistema in equilibrio costante, il motore immobile di Aristotele non va da nessuna parte! La validità tra un sistema e un altro è data dal fatto di sopravvivere alle crisi.
Quarto : la "liberalità" del modo di risolvere la crisi attuale sta nel fatto di non precludersi nessun modo di risolverla : anzi, è, paradossalmente, da "liberisti selvaggi" il considerare tra le alternative possibili anche azioni in contrasto con la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell'Uomo. E' esattamente come sostenere che in seguito al fallimento LehmanBrothers gli apparati pubblici non avrebbero dovuto fare nulla perchè il sistema avrebbe trovato un suo equilibrio (il che è verissimo, bastava assumersi la responsabilità politica e sociale del bagno di sangue).
Quinto : i limiti evidenziati da questa crisi appartengono, in ultima analisi, a due filoni culturali, per me molto evidenti, convergenti : materialismo dei singoli, inteso come ricerca estrema di una
gratificazione/benessere esclusivamente di tipo materiale, ed economicismo della politica, ovvero l'incapacità della Politica di proporre paradigmi esistenziali basati su valori non materiali. I politici si sono "arresi" e si sono fatti dettare l'agenda politica dall'Economia : l'abolizione delle regole sui derivati fatta da Clinton nel '96-'98, che è una delle origini "tecniche" di questa crisi, è un caso esemplare : un'abdicazione al "liberista" dovere di controllo in cambio, o in virtù, di quale risultato futuro, che non fosse il mero profitto?
Attenzione anche a farne una questione di confessione : la dottrina della predestinazione non giustifica il profitto per il profitto. Il Profitto/Successo è sempre funzionale a qualcosa di altro da sè, ha una sorta di "funzione sociale", diremmo oggi.

Quindi il problema non è se il "liberismo" sia giusto o sbagliato, ma se abbiamo gli strumenti culturali per usarlo al meglio.
In una nazione dominata dal paradigma fascio-corporativo pre-bellico e da quello catto-marxista post-bellico, in cui il soggetto politico unico e solo è il Partito/Chiesa (comunque esso sia composto o strutturato), ed in cui nessun limite di permanenza (al potere) viene indicato ai singoli, io dubito fortemente.

Non il cambiare un sistema la cui ampia flessibilità consente di trovare sintesi eccellenti tra valori ed interessi, ma consentire quella circolazione delle èlite (do you remember Pareto?) che fa sì che si apportino correzioni alle inevitabili distorsioni che sono il portato dell'essere umano (che non è un homo oeconomicus perfetto, e anche se lo fosse agirebbe sempre in deficit informativo), questo è il nostro collo di bottiglia secolare.

Quello che tu descrivi come "il rifiuto ideologico del liberalismo imperante nel prendersi carico del futuro, le evidenze del degrado ambientale planetario" altro non è invece che l'incapacità della èlite politica di recepire e correggere una distorsione industriale ed economica. La nuova linea green dell'amministrazione Obama va in quella direzione, se sia sufficente è oggetto di dibattito, non di rivoluzione. Oggetto di rivoluzione è risolvere la questione (a torto o a ragione). Invece per
poterla porre si presuppone sempre un certo tasso di "liberalità" del sistema. Ma in questo senso era "liberale" tanto Augusto quanto Lorenzo il Magnifico, Pietro il Grande quanto Cavour.
Il "liberismo" invece non solo prevede che la si ponga, ma che si stabilisca se, quanto e come : investa tutti o alcuni, sia un onere da dividere tra collettività e singoli, abbia priorità rispetto allle altre istanze. C'è da fare una Rivoluzione contro un siffatto sistema? La vera Rivoluzione, nel
XXI° secolo, non è porre un'agenda, ma pretendere che il sistemi funzioni.

venerdì 12 giugno 2009

La sconfitta

Guardarsi attorno e d'un tratto capire che il domani era ieri.
Sentirsi il contrario di ciò che si cercava di essere.
Un vuoto enorme, dentro ed intorno. Pesante come un macigno.
Un vuoto che schiaccia, immobilizza e, talvolta, percuote.
Ansia, angoscia, tremore in ogni parte del corpo...

La sconfitta.

Accorgersi di percorrere un sentiero secondario di campagna anzichè le strade larghe e centrali di una città conquistata.
La solitudine al posto delle ali di folla curiosa e a volte plaudente, per paura o per quel senso di liberazione che scaturisce nell'animo quando una grave faccenda si risolve, qualunque sia l'esito, un attimo prima della gioia o della rabbia.
Nella mente, per mesi, riaffiorano episodi sconnessi della battaglia perduta. Ordini e omissioni, eroismi e viltà, slanci ed esitazioni, tutto si confonde nella mente come la visione del campo di battaglia nella Nebbia di Guerra. E tutto si amplifica e si rimpicciolisce. Solo il suono della battaglia rimane invariato. Un sottofondo costante, ormai assimilato dalle cellule della mente come un copione dopo migliaia e migliaia di prove e di repliche. Crepitii di moschetti, rombi cupi dei pezzi da 12 libbre, il fischio dei proietti nemici in arrivo, la percussione degli zoccoli, sbuffi, nitriti, le ruote dei carriaggi, grida, urla, imprecazioni, sibili e clangori di acciaio contro acciaio...

Nessun'altra voce ti parla, nessun'altra ascolti...

Accorgersi del proprio respiro inutilmente affannoso, poichè non c'è sforzo o terreno che ne giustifichi la difficoltà, solo al ricordo dell'acre fumo che ti avvolge in battaglia. Essere squassati da una tosse secca e falsa che graffia la gola e la lascia quasi sanguinante, appena sembra di percepire anche solo l'ombra dell'odore della polvere sputata dalle lunghe canne dei fucili, dalle canne brunite dei cannoni.
E gli occhi... Gonfi, rossi, fissi... Continuamente sfregati sulle maniche della giubba o incessantemente sciacquati ad ogni ruscello o fontana. Il persistente fastidio della luce, un'invisibile spada che sembra trafiggerti ad ogni battito di ciglia.
Guardare soltanto il terreno del prossimo passo... Nessuna distratta osservazione delle genti sulla via, come nelle marce. Nessuno sforzo di contemplazione dei paesaggi, come nelle albe di poco tempo prima. Anzi, meglio muoversi al tramonto e durante la notte. Lo sconfitto non ama esser visto dagli occhi altrui, mentre i suoi sono assai meglio disposti all'ombra.
Del resto è la Luna ad aver visto le nostre pene ed i nostri pianti.
Al sole si può solo combattere e morire.
Alla fine dello scontro, nell'oscurità, Vittoria e Sconfitta divengono medesima cosa, nei fiochi lamenti dei moribondi, nei gemiti supplichevoli dei feriti, nelle urla ancestrali degli amputati, degli sventrati, dei trafitti, dei colpiti, degli sciabolati... La Morte pare nulla, a confronto.
L'odore della carne bruciata, del sangue rappreso, degli stomaci divelti, della terra umida, scavata, rivoltata, squarciata. Una sorta di zuppa farcita di corpi esangui. Condita di arti strappati. Il cibo della Storia.

Giorno dopo giorno, passo dopo passo, respiro dopo respiro... Ricomporre i pezzi dell'esistenza, riedificare un edificio di routine, di abitudini, di rituali, di gesti, di frasi... Squilli lontani di tromba, ordini, controllare le dotazioni, provare e riprovare i cambi di formazione, ingrassare il cuoiame, affilare le sciabole e le baionette, asciugare le polveri, grancasse e tamburi, lucidare gli ottoni, caricare i barili, preparare i cassoni, scherzare con le vivandiere, strigliare cavalli, requisire alloggi, montare i bivacchi e le tende, inciampare nei secchi e nelle bottiglie, studiare i volti dei rimpiazzi, abbracciare i camerati sopravvissuti, scrivere a casa, parata il sabato, messa la domenica.
Attendere la prossima battaglia.

mercoledì 3 giugno 2009

Camporella elettorale

Mi sono ripromesso di non parlare, qui, di politica.

Eppure non riesco a contenere il bisogno di gridare, da questo sgabello elettronico nella piazza virtuale, il mio sdegno per ciò che sta succedendo.

Una volta c'erano le "campagne elettorali". Il termine "campagna" aveva una chiara accezione militare. Si trattava di "battere" il terreno, ovvero le piazze, argomentando pubblicamente. Che si facesse tramite radio o televisione, cambiava poco. Si trattava sempre di convincere i "neutrali" a schierarsi con la propria fazione.

La massa dell'elettorato stava all'interno di una sorta di campo di prigionia (la Storia) sulle cui torrette stavano i politici che accendevano i riflettori su una parte di questa massa per identificarla, segmentarla, comprenderla, forse, e cercare di spostarla dove voleva. Un pò lugubre, forse. Ma la massa era posta al centro del terreno, era "bersaglio", era l'oggetto della contesa a mezzo riflettori.

Poi è arrivata la spettacolarizzazione, la personalizzazione, l'ideologia dell' "àpres moi, le diluge", la denigrazione sistematica, l'abbassamento abissale del livello del ceto politico, le invasioni di campo. Infine la superficialità come virtù "orizzontale" dei Barbari (grazie Baricco).
Conseguenza : la gossip-politik, il bucoserraturismo, il velinismo estetico, il moralismo (che è privo in sè di ogni morale e come tale è padre putativo di tutti i fanatismi) di ritorno, le sbandate ipocrite, le claques plaudenti degli studi televisivi.

E queste claques che plaudono ai passaggi dialettici più significativi del proprio leader mi ricordano il pubblico (che applaudiva più per farsi vedere che per direttiva di regia) di un'antica trasmissione televisiva estiva "Giochi senza frontiere", disfida internazionale di giochi a squadre.

Ecco la trasformazione : oggi non c'è più quel lugubre campo con le torrette, ma uno sfavillante e coloratissimo campo sportivo attrezzato per le più mirabolanti evoluzioni di "giocolieri dialettici". E la massa (che era al centro) ora si è comodamente seduta sulle gradinate per vedere lo spettacolo, peraltro inquadrata solo assieme al tabellone dei punteggi, giusto a ricordarcene l'esistenza. E lo spettacolo sono quelli che stavano sulle torrette, sono loro i giocolieri dialettici, quelli che furono i "politici".

Ed ogni tanto si giocano il Jolly, con lo scoop del momento. Poi, a turno, si confrontano nel Fil Rouge...

Mah, forse invece è sempre stato così. Forse l'idea che la massa fosse al centro delle (morbose?) attenzioni dei politici è solo un'impressione o un ricordo di gioventù, età in cui si scambiano spesso e volentieri gli entusiasmi per certezze...

Rimane il fatto che dalle "campagne" siamo passati, con insensata leggiadria, alle "camporelle" elettorali. Con tanti saluti alle masse.



Hans plays with Lotte, Lotte plays with Jane, Jane plays with Willi, Willi is happy again
Suki plays with Leo, Sacha plays with Britt, Adolf builts a bonfire, Enrico plays with it
-Whistling tunes we hid in the dunes by the seaside
-Whistling tunes we're kissing baboons in the jungle
It's a knockout
If looks could kill, they probably will
In games without frontiers-war without tears
Games without frontiers-war without tears
Jeux sans frontieres

martedì 26 maggio 2009

Misoginia in sol minore - I° movimento

Come fai, sbagli.
Qualsiasi cosa si possa fare, dire o pensare, l'altra metà del cielo troverà qualcosa da ridire. L'insoddisfazione come condizione cronica, la critica come imperativo categorico.

S'intende, lo fanno anche gli uomini. Gli uomini però quasi mai dimenticano di soppesare l'intreccio fra causalità e casualità, fra possibilità e momento.
Le donne no. La loro spietatezza critica è la misura di questo tempo. Un tempo-donna. Un'epoca querula e vanitosa dove le virtù virili sono messe a durissima prova, quando non discreditate, e la cosmogonia umana viene declinata quasi esclusivamente al femminile.

Del resto basta guardarsi intorno ed è tutto uno sgomitare di figure femminili, o presunte tali, ansiose di dimostrare di essere come gli uomini, anzi meglio.

Come se poi agli uomini fosse mai fregato niente (ai ministri di ogni religione, invece, assai di più).

Per i maschi la competizione è fra loro, poichè il competere è fra uguali, per definizione.
La donna sarà anche "pari", ma non è "uguale". Al massimo "simile".
Ma anche se fosse "meglio", cosa accidente crede di aver vinto?
E va bene, fuori, a cacciare nella neve, magari all'ottavo mese.
Io adesso sto in caverna per un pò.
"E vedi di prendere qualcosa di buono, accidenti!"

martedì 19 maggio 2009

Vorrei... Vorrei... Vorrei...

Vorrei una tastiera con i tasti pesati ma regolabili, magari di avorio riciclato da un sequestro (così non abbattiamo nè alberi nè elefanti)
Vorrei che avesse tantissimi suoni e che al momento di pistolare fra i parametri mi leggesse nel pensiero e si regolasse da sola
Vorrei gli 88 tasti, ma il peso di una piuma, e per il peso di una pietruzza un'ottava in più per i suoni elettronici che non so come funziona il transpose
Vorrei un display grande, completo, luminoso ma discreto e poco appariscente
Vorrei lo chassis firmato Abarth per i locali dove non ci danno la birra gratis
Vorrei una workstation che faccia da stage, capace di arranger da sè per l'interfaccia col PCI ma che non sia un compromesso storicoVorrei l'harmonizer, il vocoder e l'expansion : al bus per il trasporto penso io
Vorrei un supporto da palco (che userò a casa) smontabile, estraibile, espandibile, solido, resistente ma leggero, possibilmente con tapis roulant così faccio un pò di fiato per i cori mentre suono, anzi sincronizzato con la grancassa del batterista
Vorrei i pedali, i mezzipedali, perfino i quarti di pedale e pure la frizione
Vorrei che al mattino quando l'accendo mi dicesse "Caro, è pronto il caffè" con quella sua voce sensuale, leggermente metallica, che sfuma come un Rhodes ma geme come un Moog. Naturalmente regolabile tramite Breath Control.
Vorrei che campionasse, ma in automatico
Vorrei che leggesse i cd e preparasse una serie di possibili cover direttamente separando le singole partiture di ogni singolo strumento sulle tracce del sequencer
Vorrei la certezza di un'interfaccia e non il sospetto di averlo intercooler
Vorrei delle manopole sensibili come un clitoride ma solide come i volanti dei portelli stagni dei sommergibili
Vorrei che gli sliders fossero elasticizzati
Vorrei che la batteria tampone non finisca mai
Vorrei che fosse immune alla polvere ed all'umiditàVorrei che il flight case fosse un pò meno flight e molto più case
Vorrei che quando facciamo della disco i tasti si illuminassero come la pedana dell'Studio 54
Vorrei che il general midi mettesse sull'attenti il vst ogni volta che do un comando di cambio patch, a right o left che sia, ecchepanpot !
Vorrei che, per una volta, il chitarrista non confondesse l'attacco dell'usb con la fermata del bus
Vorrei un sistema ottico per le wheels simile a quello per il direzionamento del cannone Vulcan degli elicotteristi sul mangusta
Vorrei naturalmente che costi non più di 400 euro
Vorrei... Vorrei... Vorrei...

Vorrei saper suonare
26/09/2008

lunedì 18 maggio 2009

Orizzonti

Tentare di guardare lontano. Almeno tentare.
Le siepi dei giardini di Recanati valgono la visione di un nuovo orizzonte?
Oh, certo, nel pensiero tutto si può fingere. Ma bombardati come siamo oggi da illusorie realtà, abbiamo forse bisogno di regalarci altre finzioni?
Affondando lentamente nel cemento e schiantati dal rumore di fondo di una civiltà allo sbando, non val forse la pena di cercarli quegli "interminati spazi", quei "sovrumani silenzi"?
Allora il naufragare diviene metafora di un viaggio senza fine, dove la mèta è l'orizzonte di domani.
Ulisse riparte per superare le Colonne d'Ercole.
Non prima d'aver acquistato, a rate tasso zero, s'intende, l'ultimo modello di telaio per Penelope.
Al ritorno troveremo Itaca trasmutata in Fabbrica, grazie ai sacrifici ad Efesto e Vulcano : una razionale, prometeica, divisione del lavoro in cui gli uomini curano le greggi ed ottengono materia prima, mentre le donne producono incessantemente tele e tappeti su telai ben allineati in nuovi edifici. I vecchi si occupano dei bambini, mentre gli adolescenti si occupano dei trasporti.
Penelope è intenta a verificare che il meccanismo non s'inceppi : a colazione, distesa sul letto che Ulisse, quasi un protodesigner, realizzò con un tronco d'ulivo, controlla gli ordinativi; segue verifica delle scorte di magazzino; un piccione viaggiatore le porterà le tavolette di cera con i rendiconti appena in tempo per il pranzo. Al pomeriggio discuterà con gli armatori il prezzo del noleggio delle navi e ascolterà le delegazioni dei sudditi, di solito petizioni per migliorare la qualità dei servizi di welfare. Poco prima di cena un pò di body massage o una scaricante seduta di esercizi col personal trainer. Cena con gli intendenti, pardon, i manager dei vari settori, per motivarli meglio...
Ulisse era come ipnotizzato dalla modernità al suo meglio : lo stantuffìo ritmato dei telai e delle macchine del packaging erano un requiem immaginifico per quel piccolo mondo agreste che chiamava "casa". Mi guardò e disse : "Chabert, forse il tuo amico Giacomo non aveva tutti i torti a voler stare dietro la siepe".
Penelope, più che guardarci, ci squadrò. Altera, splendida, perfetta. Adorna di pepli e gioielli, forse solo un Fidia o un Canova potrebbero, per così dire, descriverla adeguatamente in una delle loro stupefacenti trasformazioni della pietra. Ma lo sguardo era vagamente schifato. Del resto, che potevano pretendere le pelli grezze e puzzolenti di animali sconosciuti indossate da Ulisse e dai suoi marinai, le barbe lunghe e non curate, le mani lacere di sartiame e salsedine, le carnagioni chiazzate dalle impronte dei mille soli di latitudini note solo alla nostra memoria. Giusto la mia uniforme napoleonica spuntò un'espressione di lucrosa curiosità, come vaga intuizione di un nuovo filone di prodotti. Ma fu solo un attimo. Lo sguardo tornò severo. Puntò dritto e feroce su Ulisse come la freccia di Paride contro Achille : "Ecco tornato l'astuto Ulisse... Avrai finito finalmente di bighellonare per i mari coi tuoi amici, mentre io mando avanti il regno. Sarà ora che ti trovi una occupazione produttiva, anzichè rischiare la pelle prima per quel cornuto impotente di Menelao e poi per la tua curiosità, per la voglia di sapere cosa c'è più in là. Un accidenti! Ecco cosa c'è. E torni sempre a mani vuote, mai qualcosa di utile, men che meno un pensierino per me, che mi faccio una testa così a mandare avanti casa, lavoro, sudditi, imposte, Giustizia, Difesa, Interni, Dogane e tutto il resto. Astuto sì, eccome! Lui in giro a divertirsi, io a casa a far la maglia... Ma stavolta non finisce così. Sono stufa di questo via vai senza programmazione, senza scadenze, senza un progetto, se non di vita, almeno di periodo... E poi, per Giove, torni sempre in condizioni pietose... Manco i Proci al sabato sera...". Emise una sorta di ringhio e ci fissò uno dopo l'altro dalla testa ai piedi, tamburellando nervosamente con la mano destra ed il piede sinistro in sincrono, seguendo il ritmo del rumore di sottofondo che proveniva dalle fabbriche. Con l'altra mano, intanto, torturava il cordone con cui impartiva gli ordini ai servi addetti a gestire la sala delle udienze, secondo un codice prestabilito tanto enigmatico e misterioso quanto secco e senza appello. Almeno così mi sembrò, in quel frangente.
Nessuno riuscì a dir nulla. E nulla vi era da dire. Si trattava solo di uno dei periodici incontri fra dei mondi destinati a soccombersi vicendevolmente di volta in volta.
Il manager dei trasporti ed il segretario generale, da dietro una colonna, con ampi gesti e leggeri colpi di una tosse falsa come i loro bilanci, richiamarono Penelope ai suoi doveri prefissati, la cui cadenza oraria e semioraria era stata stravolta dal ritorno di quella ciurmaglia, che avrebbe potuto più opportunamente presentarsi ad un orario più consono con reciproco vantaggio, essendo noto che nel tardo pomeriggio la regina, per così dire, allentava le redini.
Finita la disanima di quel branco di animali come certamente dovevamo apparire ai suoi occhi pittati, Penelope assentì leggermente col capo verso i due maneggioni e, con un gesto di stizza, ci indicò una porta laterale. A capo chino infilammo un corridoio che, a dispetto della sua ampiezza, ci parve un cunicolo verso il patibolo. Procedemmo fino ad un ampia sala aperta, il cui centro era una grande vasca d'acqua color turchese, tiepida e profumata di spezie, con un vago retrogusto di miele e vaniglia, secondo le spiegazioni di una sorta di sommelier delle acque termali, che ci guardava visibilmente preoccupato all'idea dell'imminente immersione di quei corpi rozzi e sudici nel suo delicato capolavoro liquido.
Ulisse, nudo, seduto sul bordo della vasca, leggermente incurvato, le braccia conserte, aveva lo sguardo fisso nel vuoto o, chissà, perso nel ricordo di uno degli orizzonti dei mesi precedenti, e sembrava cercare ancora, nel calmo e mellifluo vapore che ci andava avvolgendo, il sapore netto ed aspro del vento freddo che sferza e gonfia il mare appena prima della tempesta. La sua voce, così ferma in battaglia e sicura nella tempesta, ora si scioglieva in un gorgoglìo flebile, stentato, a metà fra un vagito infantile e il rantolo di un moribondo : "No, non c'è differenza fra me e quel tal Giacomo... Invero, per quelli come noi, l'errore assegnatoci dal Fato, cui non possiamo sfuggire, è tornare".