martedì 14 settembre 2010

E fummo infin "Architetti" di noi stessi


Caro, carissimo Ivo,
perdonami l’anonimato, sai che è solo per pudore.
Sono alcuni giorni che penso a questo tuo invito, ma con rabbia più che con “sconsideratezza, lieve e perdonabilissima”.
Già, leggi bene : con rabbia. La rabbia di chi, forse irrazionalmente, vorrebbe vederle, quelle legioni scatenarsi sul “detto e contraddetto”. Futuristicamente, se mi passi questo avverbio “celebrativo”, dato l’anno corrente. E’ questione propriamente “edilizia”, tema quanto mai in voga.
Essere Architetti di sé. E’ un’immagine bellissima, ma che non riesco a far mia e che forse non è di molti, oggi. Siamo tutti bellissimi edifici. Siamo tutti ben disegnati, ciascuno a suo modo. Ma dei materiali con cui fummo edificati o con cui ci siamo “ristrutturati”, cosa possiamo dire? E quali considerazioni fare della collocazione, cittadina o rurale? “Luoghi e tipologie seguiranno…”. Eppure proprio di Urbanisti si sente la necessità : la crescita appare caotica, la Città Globale appare sfuggire ad ogni tentativo di controllo razionale (o presunto tale…). Dei veri e propri boulevards di certezze filosofico-toponomastiche risultano sfociare in timide “rotonde relative” dalle segnaletiche incerte, tipo quelle tipiche nelle zone industriali, dove ad ogni imbocco, su pali sottili, si affastellano cartelli variamente colorati, caotici e causa di caoticità a loro volta. Solo al terzo o quarto giro capisci qual è la direzione corretta, ma intanto hai girato su te stesso ed hai inutilmente consumato, per la gioia dei mercanti, gommisti e benzinai.
Ma torniamo all’essere Architetto di sé. Di primo acchito mi verrebbe da chiederti che tipo di Architetto e cosa intendi per Architetto. Per come la vedo io ci sono Architetti che disegnano oggetti di varia utilità, altri che modificano edifici (indirizzando, ma spesso imponendo, come vivere il quotidiano) ed altri che creano spazi. I primi oggi li chiamiamo (e li confondiamo) spesso come “designer” e forse sono i più simpatici : prendono un tema (sedia, tavolo, portacenere, spazzolino del cesso che sia) e lo sviluppano a loro piacimento. Piace, non piace, non importa. Non te lo impongono. Si accontentano di proporti una loro visione di una frazione di realtà. Male che vada è una schifezza, pazienza. I secondi, i più, sono invece coloro cui ci si affida affinchè ci aiutino a comporre il puzzle delle nostre esistenze in un luogo veramente “nostro”, riconoscibile, sia esso casa, ufficio, negozio, quartiere. Di norma non ti ascoltano mai. In parte perché troppo distratti dalle incombenze burocratiche, aggiornamento delle norme, catasti, soprintendenze, etc. Ma perlopiù sono ebbri del potere di costringerti a seguire la loro visione delle cose e della vita. Il mobile che è previsto in angolo ben difficilmente lo potrai ricollocare lungo il muro, a meno di rivoluzionare, in senso astronomico, tutta la disposizione nella stanza. Le loro scelte arbitrarie portano a cambiare le tue naturali inclinazioni a muoverti ed organizzarti in quel certo modo spontaneo che ti è proprio. E così, anziché essere al servizio del tuo Essere, questi piccoli despoti dello spazio si “ritrovano” (quasi con sorpresa, hai mai notato?) a piegarti al loro narcisistico volere. Un esempio? Se sei appassionato di musica, non disporranno mai il salotto nel modo più consono all’ascolto. Se hai il problema del traboccamento dei libri, vorranno invariabilmente lasciare pareti sgombre per contornare quella serigrafia, s’intende un dono di nozze parentale, che fosse per te c’incarteresti il pesce. E il vetrocemento… Uuuuuhhh, che brividi percorrono le schiene degli Architetti quando pensano al vetrocemento (e qui bisognerebbe parlare dei materiali, ma capisco di essere sufficientemente tedioso). Degli uffici, basta ricordare della geniale invenzione degli open space suddivisi in minuscole celle monacali senza soffitto ove ciascuno dei nuovi schiavi (tanto questo oggi siamo, colletti blu o bianchi o arancioni o del colore che vuoi) si può sentire sufficientemente al riparo dai suoi pari livello ma “osservabile” dall’alto, dal dio, dal manager (stanno sempre “un piano più su”) o dal suo occhio a circuito chiuso. Perché il vero business è il controllo. Sempre.
A questo tipo di Architetto appartengono anche quelli che disegnano singoli edifici pubblici o privati e, a volte, piccole piazze, monumenti o fontane, parchi pubblici. Ma non stiamo parlando di opere da manuali di architettura, ma di quelle committenze talvolta seminascoste, tipo le cosiddette “riqualificazioni”. Insomma quelle di cose per cui, dopo, sempre dopo, ti chiedi cosa ha fatto di male quel luogo per essere massacrato così dal primo imbecille dotato di matita, pardon, di autocad.
Quello che al sanpietrino scuro sostituisce l’autoserrante (si chiama così?) grigio e rosso a lisca di pesce e pazienza se intorno ci sono palazzi sei-settecenteschi. Quello che ti piazza le luci blu nella pavimentazione della piazza perché anche l’ultimo degli alieni, da Andromeda, veda dove posarsi per contattare il locale responsabile della ASL in caso di disordini intestinali dovuti al salto nell’iperspazio. E d’accordo che ognuno a casa sua commissioni (o creda di farlo, come dicevo più su) certe idiozie, ma nelle cose fatte coi soldi di tutti, almeno lì, più buonsenso (che è il grande scomparso della nostra epoca, altro che “Chi l’ha visto”) e normale buongusto, non guasterebbero affatto.
Gli ultimi sono i Grandi. Potrei fare i nomi, ma li conosciamo (quasi) tutti. E qui non si sa mai dove il Genio sconfina nella follia… Comunque io non voglio ricordarmi il nome di chi ha disegnato (sì, “disegnato”. Progetta l’Ingegnere e costruisce il Muratore, anzi, meglio la Maestranza, che poi i muratori tirano fuori grembiuli, compassi, cazzuole, appunto!, e si fa confusione di ruoli. L’Architetto… architetta! Che poi in italiano non suona bene : “Cos’hai architettato stavolta?”. C’è già un che di diabolico nell’atto di “architettare”) una roba da voltastomaco come lo Zen. O come quello scatolone di cemento (le Vele?) a Napoli. O di quell’edificio incredibile che s’incontra in autostrada alla periferia di Trieste? Non sono nomi da ricordare, sennò faremmo il loro gioco. Perché per pensare cose del genere (chiamiamolo pensare…) : far vivere persone senza luce o aria, stipate, magari con pareti divisorie dove il peto dell’inquilino del quarto piano si confonde col cigolìo del letto della prostituta del sesto, non ci vuole cervello o anni di studi. No, ci vuole un Ego come la Torre di Babele. Una superbia, una tracotanza, un senso dell’altro pari forse a quello delle guardie dei campi di sterminio o dei gulag siberiani. Vuol dire possedere un’anima, anzi venderla su committenza, desiderosa solo e soltanto di lasciare scolpito il proprio nome. A torto o a ragione.
E poi gli aeroporti dove ti perdi, perché anche le cartine “voi siete qui”, disseminate così a casaccio che sembra fatto apposta, sono vittime di quel minimalismo grafico che nella sua essenzialità ti impedisce di catturare il necessario, cioè dove sei e dove devi andare. I musei, bellissimi se non ci fossero quei maledetti visitatori che pretendono anche di vederle, le opere d’arte. Accidenti, è chiaro, no? Il museo è l’opera da contemplare, lo spazio, il tempio cui conferire le anime degli artisti e dei loro ammiratori. Il “contenitore” è l’opera delle opere perché tutte le racchiude. E’ il ventre. E’ la Mater. Così come la Televisione (o Internet) è la Meraviglia (tecnologica). Chi se ne frega del contenuto, no? Il mezzo è il messaggio, e a c### tutto il resto, dixit Guccini.
E tu, oggi, Ivo, mi proponi di essere Architetto di me stesso?
Di disegnarmi da me medesimo?
Io vorrei invece che quelle legioni scatenassero veramente l’inferno e si potesse ricostruire da capo (perlomeno dal 1945 in poi, in termini di… edilizia. Per la metafora che sottende a tutto ciò, ognuno faccia la sua proposta).
Vorrei che invece si partisse proprio da quei “luoghi e tipologie”, perché ciò che sono lo so e ciò che ho intorno lo vedo. Ma non riconosco più dove sono, e, quel che è peggio, perché.
E questa “estraneità” la ritrovo negli occhi delle persone, vagando per le tristi scansie di Nannucci o per le sale della mostra di Morandi. Tutti così. Piatti. Svuotati. Alienati. Come i simil-omini che una volta venivano messi nei plastici degli Architetti, appunto. Quell’elemento marginale, a volte decorativo che viene definito “una nota di colore”.
30/03/2009

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