domenica 27 gennaio 2013

Il Trasloco

Spostarsi... Dopo più di 30 anni... Imballare oggetti che non sai quando ritirerai fuori. Quante volte hai guardato quella foto passando di lì? Quante volte sei rimasto con la faccia al sole su quella sedia? Ogni minima abitudine quotidiana si frantuma, ogni piccolo rito si scompone, ogni mappa mentale si scompiglia, e ti perdi nel caos...
Pile di scatoloni contengono, a volte alla rinfusa, a volte con ordine, gli oggetti del tuo ieri...
I libri che avevi con fatica organizzato, che trovavi al volo nella libreria, quelli in alto che non leggerai mai più, quelli in basso, che volevi sempre a mano, quelli al centro, l'orgoglio del tuo Sapere e, a volte, tuoi tesori preziosi, che fossero edizioni rare o pregiate, antiche o nuove, di lusso o economiche... I libri che ti hanno regalato, quelli che hai regalato tu dopo averli assaporati... Quelli che hai letto con lei, quelli che avresti voluto che lei leggesse... Quelli che si tramandano in famiglia, quelli che odorano di polvere stantìa o di inchiostro appena impresso... Libri...
Metter via le cose senza sapere se e quando le ritirerai fuori... Foto... Ritrovare oggetti perduti... Ricordare, ricordare, ricordare...
Organizzare gli scatoloni per importanza, urgenza, luogo, stanza, funzione, fragilità degli oggetti... Etichettare, catalogare, scrivere, numerare, dividere, decidere, imballare, caricare, trasportare, scaricare, ridividere, risistemare...
I locali vuoti... un ultimo giro... sedersi per terra e ascoltare il silenzio... echi di Vita passata... brandelli di esistenza... c'è già un odore diverso nelle stanze... sei già oltre... sei già lontano... e cosi inchiodato li... fra pezzi di giornali, pluriball e nastri adesivi... sparso per terra con polvere e viti che cercherai... incorniciato nei bordi anneriti lasciati dai quadri... un bianco che sembra il Nulla...
Come sono grandi le stanze di una casa vuota... come sembra impossibile, adesso, che non riuscissero a contenere tutta quella Vita... come sembra tutto assurdo... quanto spazio, quanto tempo...
Chiudere quella porta per l'ultima volta... l'avresti mai detto?... "Andiamo..."

martedì 14 settembre 2010

E fummo infin "Architetti" di noi stessi


Caro, carissimo Ivo,
perdonami l’anonimato, sai che è solo per pudore.
Sono alcuni giorni che penso a questo tuo invito, ma con rabbia più che con “sconsideratezza, lieve e perdonabilissima”.
Già, leggi bene : con rabbia. La rabbia di chi, forse irrazionalmente, vorrebbe vederle, quelle legioni scatenarsi sul “detto e contraddetto”. Futuristicamente, se mi passi questo avverbio “celebrativo”, dato l’anno corrente. E’ questione propriamente “edilizia”, tema quanto mai in voga.
Essere Architetti di sé. E’ un’immagine bellissima, ma che non riesco a far mia e che forse non è di molti, oggi. Siamo tutti bellissimi edifici. Siamo tutti ben disegnati, ciascuno a suo modo. Ma dei materiali con cui fummo edificati o con cui ci siamo “ristrutturati”, cosa possiamo dire? E quali considerazioni fare della collocazione, cittadina o rurale? “Luoghi e tipologie seguiranno…”. Eppure proprio di Urbanisti si sente la necessità : la crescita appare caotica, la Città Globale appare sfuggire ad ogni tentativo di controllo razionale (o presunto tale…). Dei veri e propri boulevards di certezze filosofico-toponomastiche risultano sfociare in timide “rotonde relative” dalle segnaletiche incerte, tipo quelle tipiche nelle zone industriali, dove ad ogni imbocco, su pali sottili, si affastellano cartelli variamente colorati, caotici e causa di caoticità a loro volta. Solo al terzo o quarto giro capisci qual è la direzione corretta, ma intanto hai girato su te stesso ed hai inutilmente consumato, per la gioia dei mercanti, gommisti e benzinai.
Ma torniamo all’essere Architetto di sé. Di primo acchito mi verrebbe da chiederti che tipo di Architetto e cosa intendi per Architetto. Per come la vedo io ci sono Architetti che disegnano oggetti di varia utilità, altri che modificano edifici (indirizzando, ma spesso imponendo, come vivere il quotidiano) ed altri che creano spazi. I primi oggi li chiamiamo (e li confondiamo) spesso come “designer” e forse sono i più simpatici : prendono un tema (sedia, tavolo, portacenere, spazzolino del cesso che sia) e lo sviluppano a loro piacimento. Piace, non piace, non importa. Non te lo impongono. Si accontentano di proporti una loro visione di una frazione di realtà. Male che vada è una schifezza, pazienza. I secondi, i più, sono invece coloro cui ci si affida affinchè ci aiutino a comporre il puzzle delle nostre esistenze in un luogo veramente “nostro”, riconoscibile, sia esso casa, ufficio, negozio, quartiere. Di norma non ti ascoltano mai. In parte perché troppo distratti dalle incombenze burocratiche, aggiornamento delle norme, catasti, soprintendenze, etc. Ma perlopiù sono ebbri del potere di costringerti a seguire la loro visione delle cose e della vita. Il mobile che è previsto in angolo ben difficilmente lo potrai ricollocare lungo il muro, a meno di rivoluzionare, in senso astronomico, tutta la disposizione nella stanza. Le loro scelte arbitrarie portano a cambiare le tue naturali inclinazioni a muoverti ed organizzarti in quel certo modo spontaneo che ti è proprio. E così, anziché essere al servizio del tuo Essere, questi piccoli despoti dello spazio si “ritrovano” (quasi con sorpresa, hai mai notato?) a piegarti al loro narcisistico volere. Un esempio? Se sei appassionato di musica, non disporranno mai il salotto nel modo più consono all’ascolto. Se hai il problema del traboccamento dei libri, vorranno invariabilmente lasciare pareti sgombre per contornare quella serigrafia, s’intende un dono di nozze parentale, che fosse per te c’incarteresti il pesce. E il vetrocemento… Uuuuuhhh, che brividi percorrono le schiene degli Architetti quando pensano al vetrocemento (e qui bisognerebbe parlare dei materiali, ma capisco di essere sufficientemente tedioso). Degli uffici, basta ricordare della geniale invenzione degli open space suddivisi in minuscole celle monacali senza soffitto ove ciascuno dei nuovi schiavi (tanto questo oggi siamo, colletti blu o bianchi o arancioni o del colore che vuoi) si può sentire sufficientemente al riparo dai suoi pari livello ma “osservabile” dall’alto, dal dio, dal manager (stanno sempre “un piano più su”) o dal suo occhio a circuito chiuso. Perché il vero business è il controllo. Sempre.
A questo tipo di Architetto appartengono anche quelli che disegnano singoli edifici pubblici o privati e, a volte, piccole piazze, monumenti o fontane, parchi pubblici. Ma non stiamo parlando di opere da manuali di architettura, ma di quelle committenze talvolta seminascoste, tipo le cosiddette “riqualificazioni”. Insomma quelle di cose per cui, dopo, sempre dopo, ti chiedi cosa ha fatto di male quel luogo per essere massacrato così dal primo imbecille dotato di matita, pardon, di autocad.
Quello che al sanpietrino scuro sostituisce l’autoserrante (si chiama così?) grigio e rosso a lisca di pesce e pazienza se intorno ci sono palazzi sei-settecenteschi. Quello che ti piazza le luci blu nella pavimentazione della piazza perché anche l’ultimo degli alieni, da Andromeda, veda dove posarsi per contattare il locale responsabile della ASL in caso di disordini intestinali dovuti al salto nell’iperspazio. E d’accordo che ognuno a casa sua commissioni (o creda di farlo, come dicevo più su) certe idiozie, ma nelle cose fatte coi soldi di tutti, almeno lì, più buonsenso (che è il grande scomparso della nostra epoca, altro che “Chi l’ha visto”) e normale buongusto, non guasterebbero affatto.
Gli ultimi sono i Grandi. Potrei fare i nomi, ma li conosciamo (quasi) tutti. E qui non si sa mai dove il Genio sconfina nella follia… Comunque io non voglio ricordarmi il nome di chi ha disegnato (sì, “disegnato”. Progetta l’Ingegnere e costruisce il Muratore, anzi, meglio la Maestranza, che poi i muratori tirano fuori grembiuli, compassi, cazzuole, appunto!, e si fa confusione di ruoli. L’Architetto… architetta! Che poi in italiano non suona bene : “Cos’hai architettato stavolta?”. C’è già un che di diabolico nell’atto di “architettare”) una roba da voltastomaco come lo Zen. O come quello scatolone di cemento (le Vele?) a Napoli. O di quell’edificio incredibile che s’incontra in autostrada alla periferia di Trieste? Non sono nomi da ricordare, sennò faremmo il loro gioco. Perché per pensare cose del genere (chiamiamolo pensare…) : far vivere persone senza luce o aria, stipate, magari con pareti divisorie dove il peto dell’inquilino del quarto piano si confonde col cigolìo del letto della prostituta del sesto, non ci vuole cervello o anni di studi. No, ci vuole un Ego come la Torre di Babele. Una superbia, una tracotanza, un senso dell’altro pari forse a quello delle guardie dei campi di sterminio o dei gulag siberiani. Vuol dire possedere un’anima, anzi venderla su committenza, desiderosa solo e soltanto di lasciare scolpito il proprio nome. A torto o a ragione.
E poi gli aeroporti dove ti perdi, perché anche le cartine “voi siete qui”, disseminate così a casaccio che sembra fatto apposta, sono vittime di quel minimalismo grafico che nella sua essenzialità ti impedisce di catturare il necessario, cioè dove sei e dove devi andare. I musei, bellissimi se non ci fossero quei maledetti visitatori che pretendono anche di vederle, le opere d’arte. Accidenti, è chiaro, no? Il museo è l’opera da contemplare, lo spazio, il tempio cui conferire le anime degli artisti e dei loro ammiratori. Il “contenitore” è l’opera delle opere perché tutte le racchiude. E’ il ventre. E’ la Mater. Così come la Televisione (o Internet) è la Meraviglia (tecnologica). Chi se ne frega del contenuto, no? Il mezzo è il messaggio, e a c### tutto il resto, dixit Guccini.
E tu, oggi, Ivo, mi proponi di essere Architetto di me stesso?
Di disegnarmi da me medesimo?
Io vorrei invece che quelle legioni scatenassero veramente l’inferno e si potesse ricostruire da capo (perlomeno dal 1945 in poi, in termini di… edilizia. Per la metafora che sottende a tutto ciò, ognuno faccia la sua proposta).
Vorrei che invece si partisse proprio da quei “luoghi e tipologie”, perché ciò che sono lo so e ciò che ho intorno lo vedo. Ma non riconosco più dove sono, e, quel che è peggio, perché.
E questa “estraneità” la ritrovo negli occhi delle persone, vagando per le tristi scansie di Nannucci o per le sale della mostra di Morandi. Tutti così. Piatti. Svuotati. Alienati. Come i simil-omini che una volta venivano messi nei plastici degli Architetti, appunto. Quell’elemento marginale, a volte decorativo che viene definito “una nota di colore”.
30/03/2009

giovedì 26 agosto 2010

La Solitudine

Solitudine è camminare nella tua città e sentirla nemica

Solitudine è buttar giù un po’ di pizza su un tavolo pieno degli scarti di chi ti ha preceduto.

Solitudine è l’odore appiccicoso di unto condito col ronzio fastidioso di un ventilatore

Solitudine è la televisione inutilmente accesa in sottofondo

Solitudine è la faccia ostile di chi siede poco più in là.

Solitudine è capire che il tuo volto torvo lo spaventa di più.

Solitudine è invidiare un cane accarezzato dal mendicante.

Solitudine è invidiare un mendicante che dorme col suo cane

Solitudine è dimenticarsi del sacchetto della spazzatura

Solitudine è un lavello pieno di piatti sporco e maleodorante

Solitudine è la solita scatola di tonno, il pane raffermo, il latte scaduto, il frigo vuoto

Solitudine è stare al buio con gli occhi nel nulla perché la luce non serve a nessuno

Solitudine è scherzare coi minuti per riempirli di niente

Solitudine è una canzone che nessuno ti dedica mai

Solitudine è il sapore dell'Assenza

Solitudine è un pennello dimenticato e senza colori

Solitudine è un vaso di fiori mai innaffiato

Solitudine è un acquario senza pesci

Solitudine è un clown senza bambini

Solitudine è un'aula d'estate

Solitudine è l'inverno delle anime

Solitudine è sentire il rumore della tv del vicino

Solitudine è un sacco di roba sporca che non verrà lavata

Solitudine è non aprire al postino, anche se suona due volte

Solitudine è la password al computer anche se vivi da solo

Solitudine è la vita di un altro che hai preso a nolo

Solitudine è la tua vita rubata da ignoti

Solitudine è pedinare una coppia che cammina abbracciata

Solitudine è stare a guardare ragazzi attorno ai motorini

Solitudine è sentirsi come quel cassonetto stracolmo e scassato

Solitudine è quel televisore vecchio abbandonato di lato

Solitudine è comprare le sigarette dalla macchinetta anche se il tabaccaio è aperto

Solitudine è accorgersi che chi ti incrocia rifugge i tuoi occhi e allunga il passo.

Solitudine è l'acqua stagnante di un fosso

Solitudine è la vetrina vuota di un negozio fallito

Solitudine è la foto del matrimonio di un altro

Solitudine è un trasloco che non ti decidi a fare

Solitudine è un libro comprato e mai aperto

Solitudine è il peso quotidiano d'ogni tuo torto

Solitudine è svuotare il portacenere ogni due ore

Solitudine è guardare un quadro e non vedere il colore

Solitudine è trovare caldo e accogliente il marmo dei gradini su cui ti sei seduto

Solitudine è far da bersaglio a quel piccione maledetto

Solitudine è non sapersi perdonare niente

Solitudine è sapere che non sarai mai veramente appagato

Solitudine è non capire se sei ancora vivo

Solitudine è tornare cento volte al giorno negli stessi posti per vedere se riconosci chi ci passa

Solitudine è offrirsi una sigaretta per sentire una voce dirti “grazie”

Solitudine è non fare la spesa perché in fondo non ti piace più niente

Solitudine è accorgersi che anche i manichini stanno in coppia nelle vetrine

Solitudine è una brioche e un caffè al tavolino più nascosto del bar

Solitudine è non trovarsi mai senza detersivo

Solitudine è fregarsene dei vetri sporchi e delle briciole sparse

Solitudine è sapere dov’è ogni cosa di casa

Solitudine è sapere che non sarai mai "a casa"

Solitudine è guardare allattare un bambino che non è il tuo

Solitudine è sentirsi più inutili di un termosifone in Agosto

Solitudine è dannarsi a ricordare chi era quel tale

Solitudine è non sentirsi bene, non sentirsi male, non sentirsi e basta

Solitudine è un telefono staccato

Solitudine è un sogno non raccontato

Solitudine è un letto disfatto che tanto va bene lo stesso

Solitudine è un letto disfatto come se si fosse fatto del sesso

Solitudine è un solo tipo di bagnoschiuma nella doccia

Solitudine è pensare a quello che avresti fatto se non fossi stato solo

Solitudine è ascoltare quelle quattro canzoni per un giorno intero

Solitudine è una piccola lacrima per ogni ricordo

Solitudine è un pugno nel muro per ogni rimpianto

Solitudine è sentirsi aquilone quando ti affacci al balcone, e vuoi cadere giù

Solitudine è leggere un giallo di cui sai già chi è il colpevole

Solitudine è chiedersi sempre il perché di ogni cosa

Solitudine è condannarsi sempre per ogni cosa

Solitudine è vivere in bilico fra le verità altrui e i propri inganni

Solitudine è un rancore profondo

Solitudine è la vendetta del mondo

Solitudine è trascinarsi senza meta tra mille marciapiedi

Solitudine è rileggere ogni giorno il libro dei propri errori

Solitudine è una fontana di cui nessuno beve l'acqua

Solitudine è aprire la porta e voler subito andar via

Solitudine è un ricordo sfocato del momento più bello

Solitudine è una tomba impolverata e senza fiori

Solitudine è una prigione senza sbarre da cui non puoi fuggire

Solitudine è un processo in cui sei giuria, imputato ed accusa, ma senza difesa

Solitudine è un videogame senza vite di riserva

Solitudine è un'opera imballata nel magazzino del museo

Solitudine è la polvere dell'anima

Solitudine è cancellare uno a uno i numeri in agenda

Solitudine è pensare di invecchiare senza nessuno a fianco

Solitudine è il rimbombare delle stesse domande di sempre

Solitudine è parlare con in gola un groppo costante

Solitudine è un aeroporto da cui nessun aereo prende il volo

Solitudine è fare la doccia senza mai cantare sotto l'acqua

Solitudine è pensare a tutti i posti che vedrai da solo

Solitudine è il fiato spezzato per una corsa non fatta

Solitudine è un silenzio infinito che non hai scelto tu

Solitudine è quel bacio mai dato che hai sulle labbra

Solitudine è accorgersi che ogni cosa, in fondo, ti è indifferente

Solitudine è sapere di non poter più fare la differenza

Solitudine è il rimorso che rimane a farti compagnia

Solitudine è avere solo la curiosità di sapere come morirai

Solitudine è la certezza che sarà così anche domani

mercoledì 25 agosto 2010

CRAC. Il suono dell'Irreparabile.

Esiste sempre, nella vita delle persone, il momento di pagare i propri errori. Così come si pagano i debiti. E come questi ultimi si pagano con gli interessi.

Se l'errore da pagare è volontario, beh, allora era un rischio calcolato e ci può stare, nel senso che chi lo ha commesso può rimproverare solo sè stesso. Ma se l'errore è involontario o casuale, allora il suo costo viene percepito più o meno come spopositato, poco o tanto che sia. Il peggio è quando si deve pagare per l'errore di altri, e allora il prezzo diventa intollerabile.

In quelli che potremmo definire "Affari di Cuore", il prezzo degli errori, di solito, è incommensurabile : dolore, lacrime, talvolta sangue, notti insonni, crisi nervose...

E, naturalmente, il peggio del peggio è dato dalla combinazione fra piccoli errori propri con enormi di altri. Allora il prezzo è, oltre che incommensurabile ed intollerabile, profondamente ingiusto. Le conseguenze sono spesso mesi, anni, di sofferenza, di "riabilitazione". Quando va bene.

Curiosamente esiste anche una "musica" dell'Errore. Si tratta un assordante silenzio, più o meno lungo, che precede, e segue, un unico suono : un "CRAC !" come di un tronco spezzato. Non lo sente nessuno, non si avverte all'esterno. E' tutto dentro di noi, nella nostra mente, nel cuore, nello stomaco. CRAC. Il suono dell'Irreparabile.

Negli attimi devastanti che seguono, si può quasi percepire il corpo che reagisce, o perlomeno tenta : la contrazione dello stomaco, immediata e bruciante; una sorta di mano invisibile che afferra salda il cuore in fibrillazione; le legioni di neuroni che rivoltano il cervello per trovare una via di scampo, come uno sciame impazzito. Pochi eterni secondi e poi torna la calma. Finta. Infatti, non sempre, ma quando l'errore è causa di una lacerazione definitiva, sembra che tutto inizi a tremare e l'assordante silenzio iniziale lascia il posto al cupo brontolìo di un terremoto, di una mandria impazzita.

Una sequenza esattamente identica al crollo di un enorme edificio. Silenzio, esplosione, silenzio, rumore dei primi detriti, crollo, silenzio definitivo. Sudore, polvere, calcinacci.


"Se son d'umore nero allora scrivo
frugando dentro alle nostre miserie,
di solito ho da far cose più serie :
costruire su macerie o mantenermi vivo"

venerdì 9 aprile 2010

La prima regola del gioco

Di primo acchito è stato così irritante che mi sono pure incazzato. Mi è parso così irrispettoso che lì per lì avrei sciabolato tutti.
Eppure, dopo un pò, vedere adulti, giovani e bambini camminare a caso fra le croci del cimitero militare americano di Colleville sur Mer, ovvero Omaha Beach, quasi 10.000 croci e stelle di David candide "allineate e coperte", ed il vedere chiassose scolaresche "invadere" quella sabbia, quei viottoli, quelle dune, beh, mi ha commosso.

Perchè è esattamente per questo che quei ragazzi vennero a morire in Normandia.

E' esattamente lo spirito statunitense. Al suo meglio. Quei 10.000 ragazzi sepolti a 10.000 km da casa saranno felici che migliaia di piedi passino loro sopra, quasi resuscitati dall'allegria che branchi di ragazzini spandono nell'aria. Perchè è la migliore celebrazione possibile della Libertà per cui sono morti.

A quei ragazzi che in tuta verde corsero giù dai mezzi da sbarco faranno certamente piacere le celebrazioni solenni, i Taps e le salve di fucile o di cannone degli anniversari. Ma sono certo che, ovunque siano ora, sorridano orgogliosi di aver dato la pelle affinchè i bambini possano correre nel prato dove sono sepolti e gli adolescenti si rincorrano su quelle spiagge dove sono stati massacrati.
Perchè quella confusione significa aver cambiato profondamente il rapporto con la Morte e con il Sacrificio, staccandoli, anzi "liberandoli" anch'essi dalla retorica, dal culto e dalla venerazione fini a sè stessi, e riportandoli ad una dimensione quotidiana.

A nessuno di quei ragazzi importava un fico secco della terra in cui sono sepolti, non combattevano per possederla, anzi non vedevano l'ora di tornarsene oltre oceano a farsi gli affari loro. Quindi non si offenderanno se passate loro sopra, perchè tutti loro sapevano che rischiavano di morire proprio affinchè qualcun altro ci potesse passare sopra : era la prima regola del gioco. Il fatto che qualcuno, da allora, ci passi materialmente sopra è la conferma di aver vinto al di là del campo di battaglia, è la conferma di un principio : è come quando si disse a ciascuno "da oggi sei un cittadino", il che non significherebbe nulla in sè e per sè, sarebbe solo un nome, una qualifica, se non fosse per il fatto che essendo tutti ugualmente cittadini i diritti ed i doveri sono identici per ciascuno e nessuno è diverso di fronte alla Legge. Non ci sono servi della gleba o nobili o quel che ti pare a te. Non ci sono Untermenschen o Borghesi. Allo stesso modo, ad Omaha non ci sono neanche Morti e Vivi. C'è solo un'Umanità e la sua Storia.

mercoledì 24 marzo 2010

Il testamento del Capitano


Carissimi, non dovessi rientrare dalla prossima missione, mi piacerebbe che queste miei “ultimi desideri” venissero rispettati, per quanto possibile e senza troppe illusioni.

Intanto prego voi e tutti gli amici di non parlare a nessuno, di nessuno, con nessuno, per nessuno, se non inter vos.

Vorrei che i politici tacessero, tutti. E quelli che per dovere istituzionale devono parlare alla Nazione, beh, vorrei che dicessero solo cose che abbiano un senso. Ad esempio è inutile stare a discutere mille volte sulla missione. Siamo soldati, la morte fa parte dei rischi del mestiere, se non si vogliono rischiare morti allora è inutile mandarci in giro, ma è anche inutile starnazzare sull’Umanità meravigliosa prossima ventura e pretendere di essere ascoltati. Del resto mica siamo armati a maccheroni, chiedetelo a quelli dall’altra parte. E chiedetegli perché non combattono sul serio : perché, per loro, siamo troppo forti, troppo addestrati, troppo attrezzati. Possono solo sperare di fiaccare, più che noi, voi a casa, con “piccoli” attacchi sfibranti. E non esiste difesa, blindatura o spessore di muro che non possa essere fatto saltare.

Prego anche i miei commilitoni di ogni ordine e grado di evitare scene penose di fronte alle telecamere. L’unica cosa che vorrei vedere è una grintosa voglia di fargliela pagare. Vorrei vedere affilare i pugnali e marciare cantando. Vorrei vedere fierezza, non mestizia. E gioia, perché morire per la Patria è meglio di morire un sabato notte per colpa di qualche tossico (almeno quelli dall’altra parte un motivo migliore del nulla o dello sballo ce l’hanno), e non parliamo degli incidenti nei cantieri o di crepare con tubicini dappertutto su un lettino d’ospedale. Non se ne parla proprio, non c’è paragone. Se leggerete queste righe sappiate che, se deve accadere, meglio così : con un’arma in mano e attorniato dai miei fratelli, piuttosto che solo e in mano altrui.

Desidererei anche che si evitassero le sparate retoriche tipo “sono tutti eroi”. Gli Eroi sono quelli che vanno all’assalto delle trincee nemiche armati di stampella, sono quelli che guidano gli uomini all’assalto senza le mani (come durante la ritirata di Russia), che resistono senza cibo e acqua e con armi inadeguate o fatte al momento (come in Africa). Ed anche in caso di un episodio tattico “normale”, beh, insomma, non è che accada sempre di ritrovarsi a compiere atti eroici come quelli. C’è ben poco di eroico, per un soldato, nel saltare in aria per una IED o una mina. Ho sempre pensato che questa facilità nel dare la patente di eroe sia tutta da giornalista deamicisiano (e mi perdoni De Amicis…). Il fatto è che in una Nazione in cui lo sport più diffuso sembra sia scantonare il proprio dovere, in cui non è che abbondino esempi di abnegazione o di semplice rettitudine, in cui sembra sempre che paghi la furbizia o il piccolo egoismo, ed in cui gli esempi dati dalle persone che incarnano l’Autorità e le Istituzioni sono… quelli che sono, appare incredibile che ci siano ancora persone che accettano di crepare per dovere. E quindi eccoci trasformati tutti in Eroi, ma solo perché si è dimenticato che esistono mestieri (e quello delle armi lo è per definizione) fatti di significati, simboli e principi che travalicano retribuzione, successo, facile notorietà e cazzate varie così di moda.

Pertanto si eviti di applaudire ai funerali. Capisco che il silenzio, in questa civiltà invasa dal brusìo e dal rumore continui e penetranti, terrorizzi. Ma si applaude agli spettacoli. Anche se oggi ci si sente vivi solo di fronte a uno spettacolo, e quindi si è spettacolarizzato tutto, anche i funerali. Ormai è divenuto normale applaudire, perché siamo tutti un pubblico, una platea (magari in attesa dei famosi 15 minuti di “gloria” mediatica). Ma al mio, no. Io non sono crepato per dare spettacolo, per regalare un’emozione, per dare occasione a politici e giornalisti e comparse di ruolo di sfoggiare le sfumature tristi della loro capacità di interpretazione. Non crepo certo per ricordare agli altri che sono vivi. Sparategli se ci provano, così sentiranno cosa si prova a pensarsi protagonisti del funeral-show. E non mi raccontate che sia un gesto liberatorio o che sia un omaggio. Capisco per la gente di spettacolo, che di applausi vive. Ma allora, se dovete proprio far caciara, fatemi sentire una bella salva di cannoni ! Più sobriamente, vorrei due silenzi : il vostro e quello fuori ordinanza.

Certo, mi rendo conto che se fossi un “eroe” le cose sarebbero più semplici per voi. Perlomeno potreste, più facilmente, farvene una ragione, trovare una giustificazione… Se uno muore da eroe, allora qualche buona ragione c’era, allora si è sacrificato scientemente, non è stato invano, etc. etc. Beh, in realtà, è raro che sia così. Sarebbe mentirvi e mentire a sé stessi. Si muore e basta. Dove capita e quando capita. Si spera solo che sia rapido.
La dicitura corretta è “caduto in combattimento”. E direi che nella sua secchezza burocratica dice già tutto, non c’è nulla da aggiungere (anzi, nel caso, non mi dispiacerebbe fosse inciso sulla lapide). Ed è di questo sopratutto che dovrete essere fieri. Se poi ci sarà di più, meglio. Ma non accettate sconti, né titoli non dovuti : esiste una gerarchia anche nella schiera dei morti per la Patria ed io non voglio vergognarmi di fronte a chi mi ha preceduto per un nastrino immeritato.

E’ tutto. A parte vi lascio le disposizioni per alcune cose pratiche, per alcuni oggetti personali e un pensiero per ciascuno di voi. Addio.

martedì 16 febbraio 2010

Starnazzamenti quotidiani


Mah... Non ho più parole... Mi aggiro nei labirintici ed umidi meandri della cosiddetta informazione e non capisco più niente. Alla faccia di chi ritiene questa l'era dell'informazione. Non compio più neanche quel gesto "da cittadino" che è, anzi sarebbe, l'acquisto di uno o più quotidiani. I settimanali non li guardo nemmeno. Rimane qualche mensile o trimestrale da "approfondimenti tardivi", che resta un labile appiglio con quella che fu l'Informazione. Ormai sono convinto che siamo stati riportati al Medio Evo, allo stadio di servitù della gleba, e l'unico orizzonte possibile rimane quello a portata dei sensi. Oddio, invero anche le cronache locali sono ridotte al lumicino. Le notizie, quelle vere, locali, nazionali o internazionali, si sentono ormai solo per sentito dire, di sfuggita fra una chiacchera al bar e una passeggiata pomeridiana. Soverchiate da un rumore di fondo gracchiante e fastidioso. Non sarà un caso che nel tempo degli MP3 si riscoprano i vecchi vinili... Come se un vecchio appassionato di hi-fi non l'avesse mai detto prima, del resto : il cd ti consente di sentire "quantitativamente" meglio, senti più cose, più suoni, elimini quel ronzio di sottofondo, l'acoustic feedback, la seccatura della manutenzione dei piatti, delle testine (ah sì, i "pick-up"), le scuole dei vari tipi di "braccio" (a "S", dritto, tangenziale...) e di trazione (a cinghia, servoassistito al quarzo), della registrazione (si registrava il vinile su cassetta appena comprato, e si riascoltava la cassetta per non usurare il disco), ogni volta il cd suonava "nuovo" mentre il disco si riempiva di micro (e macro!!!) "righe" fino a far "saltare" la puntina (e si sapevano a memoria tutti i punti "critici", tanto che poi se si sentiva lo stesso disco, ma nuovo, se ne sentiva la mancanza) o, nel miglior caso, a distorcere un pò i suoni. Sì, certo un pò "freddino", così digitalmente sempre perfetto, intonso... E appunto "qualitativamente" anche il più sdozzo dei giradischi restituiva un calore ed una "familiarità" che il cd si sognava la notte. Insomma, un pò come mangiare il pane appena sfornato contro il riscaldare nel microonde quello impacchettato del supermercato.

Ecco, l'informazione oggi è esattamente così : così fredda, distaccata e distante da doversi reinventare ogni giorno un'Apocalisse, una scusa per strillare, per farti sentire sull'orlo del baratro, anche, direi sopratutto, se si tratta del Beneamato Nulla.

La Scienza ormai è trattata come una sorta di magia e i medici o gli scienziati in rigorosi camici asettici, vengono intervistati come sciamani, anzi, come sommi sacerdoti esegeti dell'altissima volontà degli Dei, pardon, della Natura. Manca solo che mettanno gli "ooooohhhh" di sottofondo ad ogni foto dello Hubble e poi siamo alla sit-com. Di Economia non si parla, tanto va tutto bene, no? Che sia ormai evidente che è cambiata la struttura stessa del produrre e che ciò comporti un totale stravolgimento della società così come si è strutturata negli ultimi due secoli e mezzo, non gliene frega un beato accidenti a nessuno. Tranne che dire che bisogna diventare tutti dei "programmatori", dei "creativi". Eh, sì, decine di milioni di creativi... E che ci potremo inventare dopo migliaia di inutili applicazioni per Iphone e parenti stretti? Facciamo tutti gli stilisti? Alè, tutti in fila all'ennesimo corso europeo di riqualificazione : addetto allo style management di punto vendita, ovvero, come si diceva prima del trionfo del vero homo novus, l'Idiota del Market(t)ing, il "vetrinista". Ma tanto anche lì è finita : i negozi li disegnano un paio di architetti "di tendenza", cioè che hanno introitato il DNA dell'Idiota di cui sopra, nel loro loft di Soho e poi si fanno i negozi tutti uguali, a Parigi come a Canicattì. Diventiamo tutti "sistemisti AS400"? Si può fare, ma poi quando esce l'AS500? E così, consci della fragilità del sistema post-industriale si sono inventati una deregulation del lavoro partita con i migliori propositi (di cui non a caso è lastricato l'Inferno) e sfociata nella vera ed unica occupazione che "tira" : elaborazione buste paga. La disciplina è così frammentata che uno dei lavori che tira di più è quello di colui che capisce (lo capisce, lo intuisce, perchè è impossibile saperlo con certezza) quanto pagare i servi della gleba che vivono di contratto a progettino, di collaborazioni fattive, di affiancamenti sfiancanti, di asservimenti coatti, di assunzioni (sì, per via rettale) temporanee, transitorie ed eventuali, insomma quelle decine di acronimi all'americana oggi così di moda e così a modo, educatamente sfornati da Idioti (di cui sopra) allo scopo di non farti sentire o capire in che razza di merdaio sei finito.

Attenzione però, si stanno già accorgendo che così le famiglie stanno scoppiando, sia nel senso che i redditi sono insufficienti, sia nel senso che i figli sono sempre più abbandonati a loro stessi e diventano carne da macello per la strada. E ciò qualche scompiglio lo crea ancora. Ma non vi preoccupate : sono gli ultimi rantoli di un senso delle cose che sta scomparendo, quei preconcetti stantii come famiglia, educazione, cultura, senso dello Stato, senso di appartenenza, quella roba lì, dai, la cittadinanza, diritti, doveri... Vuoi mettere con la S. Discrezionalità? Eh, su, ancora un paio di spallate e ci siamo. Sono sempre più lontani i tempi in cui il pater familias lavorava e la dolce metà stava a casa ad accudire la prole e si riusciva a sopravvivere dignitosamente. Ma la colpa è nostra, dei bamboccioni (tanto lo siamo tutti, in un modo o nell'altro). E delle donne che hanno voluto a tutti i costi fare come gli uomini (e qui qualcosina di vero ci sarebbe). Non di èlites che hanno saputo attuare politiche urbanistiche tali per cui oggi ci vuole una vita per saldare un mutuo (e ci lamentavamo che i nostri padri lo avevano sul gozzo per "soli" quindici o vent'anni), non per l'utilizzo della Pubblica Distruzione (e dello Stato in generale) quale carta assorbente di disoccupati sfornati a getto continuo da corsi di laurea stupidamente aperti a tutti (il reddito non c'entra : bastava semplicemente un esamino di ammissione... Del resto se il "democratico" Umberto Eco lo ha imposto nella sua facoltà-creatura, un senso evidentemente c'è... Poi magari si potevano fare mutui statali per lo studio come in tutti i paesi normali, a tassi agevolatissimi... Oddio, troppa fantasia!!!) o diplomati a macchina sull'onda sessantottina (poche palle : il sei politico non ce lo siamo mica inventati di recente).

Già, a proposito di tassi, mutui, finanza, che dire dell'incapacità dello Stato di imporre uno standard di servizio alle banche? Si sono accorti dopo secoli del furto rappresentato dalla commissione di massimo scoperto (sulle altre magagne tipo la "commissione di chiusura trimestrale" o la "commissione sul conto non affidato" - che è fantastica, perchè è una commissione che viene applicata a chi non chiede un fido, ovvero non fa tenere alla banca del capitale sostanzialmente in sofferenza, cioè fermo - si stanno ancora informando. Tanto loro c'hanno la Convenzione Privilegium), gliel'hanno fatta togliere e le banche se ne sono inventate di nuove. Ma perchè non imporre un "servizio minimo" per legge con range di prezzi stabilite dall'authority del caso? Mah, difficilissimo, finchè le banche tengono i partiti per le palle dei finanziamenti... E poi che authority? Quelle che non sanno neanche non dico sorvegliare le transazioni di Borsa, ma imporre alle società dei servizi (telefonici, su tutti gli altri) almeno di avere siti internet semplici e chiari (non dico i contratti trasparenti, non penso al nugolo di tariffe e di offerte che poi diventano tariffe-capestro, nooooo, più semplice : mi basterebbe con due clic sapere come aprire/disdire un contratto o passare di operatore in meno di sei mesi e dodici raccomandate A/R, e il costo reale dell'ambaradan).

Ma ciò che dà più fastidio è che le norme e le contro-norme sembrano cambiare così velocemente che tu, onesto e solerte ex-cittadino, se ti capita di recarti in un ufficio pubblico sei intimidito e soverchiato dal fatto che di ogni minima cazzata si è montato un apparato di moduli e contro moduli proporzionalmente alla quantità di lavoro burocratico che i personal computer oggi consentono svolgere : si è infittito il tutto per trovare qualcosa da fare alle eccedenze umane assunte o in tempi in cui ancora si scriveva tutto a mano, anche le raccomandazioni, o che non potevano aspirare a fare le veline o che, al contrario, aspiravano benissimo : insomma quel 50% di personale pubblico che da sempre è in più e che, sempre causa le èlites gaudenti, del resto non si sapeva neanche dove mettere.

Bene, la tecnologia, la globalizzazione, l'ignavia e il permissivismo, ben distribuiti, ci hanno portati trionfalmente fin qui : adesso diteci cosa fare di bello. Ed evitate gli starnazzamenti quotidiani di cui fate ormai l'unico strumento di discussione. Non avete molto tempo.